domenica 29 settembre 2019

Drensare, clangere, glattire, blebare…


Drensare, clangere, glattire, blebare… non sono verbi inventati, ma alcuni versi degli animali in latino.
Lo storico Svetonio, nel suo De  Naturis Animantium, ci elenca il nome delle voci degli animali: alcune le ritroviamo nell’italiano (ululare, latrare, sibilare) altre sono invece distanti (uncare, fringulire, miccire).

 
LEONE
fremere, rugire
TIGRE
rancare
LEOPARDO
felire
PANTERA
caurire
ORSO
uncare, saevrire
CINGHIALE
frendere
LINCE
urcare
LUPO
ululare
SERPENTE
sibilare
ASINO SELV.
mugilare
CERVO
rugire
BUE
mugire
CAVALLO
hinnire
ASINO
rudere, oncare
MAIALE
grunnire
VERRO
quiritare
ARIETE
blatterare
PECORA
balare
CAPRA
miccire
CAPRETTO
bebare
CANE
latrare, baubare
VOLPE
gannire
GATTO
glattire
LEPRE
vagire
DONNOLA
drindrare
TOPO
mintrire, pipitare
SORCIO
desticare
ELEFANTE
barrire
RANA
coaxare
CORVO
crocitare
AQUILA
clangere
SPARVIERO
plipiare
AVVOLTOIO
pulpare
NIBBIO
lupire, lugere
CIGNO
drensare
GRU
gruere
CICOGNA
crotolare
OCA
gliccire, sclingere
ANATRA
tetrissitare
PAVONE
paupulare
GALLO
cucurrire, cantare
CORNACCHIA
fringulire
CIVETTA
cuccubire
CUCULO
cuculare
MERLO
frendere, zinziare
TORDO
trucilare, soccitare
STORNO
passitare
RONDINE
fintinnire, minurrire
GALLINA
crispire
PASSERO
titiare
APE
bombire, bombilare
CICALA
fritinnire
 



domenica 22 settembre 2019

Olandesi nel mondo



Gli Olandesi, grandi viaggiatori e navigatori, hanno dato nome nel passato a molti luoghi geografici in tutti i continenti. Vediamone alcuni:

Vancouver, città canadese
da George Vancouver, capitano della marina inglese di origini olandesi (van Couverden)
Tasmania, isola e stato australiano
da Abel Tasman, navigatore olandese
capo di Buona Speranza, in Sudafrica
da Kaap die Goeie Hoop, in afrikaans
isola di Pasqua, nell’Oceano Pacifico
da Paasch-Eyland, nome datole dal navigatore Jacob Roggeveen
Nuova Zelanda
da Nova Zeelandia, nome datole dal cartografo olandese Jacob Le Maire
Transvaal, provincia del Sudafrica
dal fiume Vaal, affluente dell’Orange
Mauritius, isola e stato africano
da Maurizio di Nassau, Maurits von Oranje, principe di Orange
Batavia, antico nome di Giacarta, capitale dell’Indonesia
dalla regione omonima olandese, Betuwe, latinizzata in Batavia
Orange, fiume del Sudafrica
da Oranje, nome della casa reale olandese
capo Horn, in Cile
da Kaap Hoorn, dal suo scopritore, Willelm Schouten, navigatore olandese
Nassau, capitale delle Bahamas
da Guglielmo III di Orange-Nassau, re d’Inghilterra e principe di Orange
mare di Barents, parte del mar Glaciale Artico
da Willelm Barentz, navigatore olandese
Van Diemen’s Land, antico nome della Tasmania
da Antonio van Diemen, governatore olandese
Johannesburg, città del Sudafrica
l’etimo è controverso, disputato tra vari Johannes olandesi
Windhoek, capitale della Namibia
forse dal termine afrikaans wind-hoek, “angolo ventoso”
Rhode Island, stato degli USA
forse da rodlich eylandt, l’isola rossastra
isola di Gorée, a Dakar, nel Senegal
dall’olandese goedereede, “buona rada”
Mauritsstadt, antico nome di Recife, capitale del Pernambuco
da Johan Maurits van Nassau-Siegen, governatore del Brasile olandese


Anche la città di New York (un tempo Nuova Amsterdam, Nieuw-Amsterdam) mantiene ancora molte delle denominazioni del tempo della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali. Tra queste ricordiamo:

Brooklyn
da Breukelen, villaggio olandese
Harlem
dalla città di Haarlem
Wall Street
da waalstraat, la strada dei Valloni
Long Island
da lange eylandt, l’isola lunga
Greenwich Village
da groenwijck, il distretto verde
Broadway
da heeren wegh, la via dei gentiluomini
Bronx
forse da Jonas Bronck, colonizzatore olandese
Coney Island
da conyne eylandt, l’isola dei conigli
Flushing
da Vlissingen, nome dell’insediamento
Nassau (città, villaggio, contea, forte)
dalla casa regnante Nassau


domenica 15 settembre 2019

Il baule delle parole dimenticate/3


PAROLA
SIGNIFICATO
lunella
pupilla
avere rangola
avere cura, sollecitudine
infrappolato 
dotato di frappe
concive 
concittadino
verdegaio
verde chiaro e vivace
archicchiocco 
carciofo
disdicciato
sfortunato al gioco
  

domenica 8 settembre 2019

Legarsela al dito o darsela a gambe?


I verbi pronominali sono molto comuni in italiano (volerne, cascarci, buscarle), anche nella forma riflessiva (preoccuparsi, svegliarsi). Possono terminare anche in -ne (farne, andarne), in -ci (volerci, cascarci), in -cene (volercene), in -sene (fregarsene, intendersene).  In molte espressioni è presente il pronome neutro la (smetterla, farla) come nei verbi in -cela (farcela) e in –sela. Vediamo quali sono questi ultimi:  

aspettarsela
non te l’aspettavi, eh?
battersela
se la sono battuta a gambe
bersela
non me la bevo!
cantarsela, suonarsela
se la canta e se la suona…
cavarsela
lei se l’è sempre cavata
cercarsela
allora te la cerchi
darsela (a gambe), svignarsela, squagliarsela, filarsela
conviene darsela a gambe
farsela (con)
se la fa con il suo miglior amico
godersela
beato lui che se la gode
intendersela
se la intendeva con la sua vicina
legarsela (al dito)
questa me la lego al dito
passarsela (bene, male)
come te la passi?
prendersela
dai, non te la prendere
ridersela
lui se la ride sotto i baffi
sbrigarsela
me la sbrigo in un attimo
sentirsela
chi se la sente di andare?
spassarsela
ve la spassate, eh?
tirarsela
la tua amica, quanto se la tira…
vedersela
dovrai vedertela con me


domenica 1 settembre 2019

Italia mia, patria mia

Due liriche dedicate all'Italia da due dei suoi maggiori poeti.


Italia mia, benché ’l parlar
sia indarno
Francesco Petrarca
All’Italia
Giacomo Leopardi
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo  tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,

e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,

di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,

qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?

perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error  vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.

Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!

Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;

ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge

s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,

che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.
Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne

di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise

guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte

cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo
Né v’accorgete anchor per tante prove

del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.

Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;

non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,

che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo

dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore

ne gli italici cor’ non è anchor morto.
Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:

ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;

et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:

cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,

et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.

Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. -

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'Itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui,
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.

Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de' Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra' primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.